Come aiutare i sopravvissuti: l'autopsia psicologica
Nonostante la moltitudine di sopravvissuti, i programmi a loro diretti rimangono ancora poco diffusi. Non sorprende che quelle nazioni che hanno alti tassi di suicidio o che appartengono a paesi in via di sviluppo o che hanno subito modificazioni politiche di grande impatto, non abbiano neppure i rudimenti per gestire questi soggetti. Inoltre si stima che, solo un quarto di coloro che subiscono un’esperienza così traumatica, cerchino effettivamente aiuto.
Si può spiegare la mancanza di coinvolgimento in attività di sostegno con varie motivazioni (Grad, 2005):
- alcuni survivors sembrano non aver bisogno di aiuto oltre il sostegno della famiglia e degli amici;
- alcuni negano sentimenti difficili da gestire così da non soffrire;
- altri cercano di non farsi riconoscere dalla società per evitare giudizi, colpe, stigmatizzazione;
- alcuni di questi soggetti possono vivere l’esperienza di essere aiutati come un momento di debolezza e, dunque, sentirsi poi più insicuri, evitando quindi di coinvolgersi in queste attività;
- i sopravvissuti possono poi nutrire poca fiducia negli interventi a loro diretti;
- la mancanza di servizi e strutture oppure un ambiente particolarmente stigmatizzante nei confronti del suicidio preclude l’utilizzo di programmi specifici.
Molti fattori contribuiscono all’elaborazione del dolore dei sopravvissuti. La personalità del soggetto, le sue credenze, i suoi valori, le esperienze di perdite nel passato, il tipo di relazione con il suicida e la rete sociale sono elementi che condizionano il processo di elaborazione del lutto. Un altro aspetto di questo problema si riferisce a come il sistema familiare vive l’evento. Esistono anche nell’ambito familiare gli elementi citati a proposito della reazione del singolo all’evento e che determinano come e se una famiglia supererà o meno la perdita.
L’aiuto si rende necessario in due diversi momenti:
- immediato sul posto, quando si comunica la morte;
- a lungo termine quando il processo di lutto diventa insopportabile per alcuni soggetti.
L’aiuto sul posto dovrebbe essere un sostegno emotivo fornito da un medico di base o dal medico legale. Mentre quando il suicidio è accaduto in un luogo non familiare e la famiglia è stata solo avvisata, un poliziotto, un medico generico o un medico legale possono intervenire nei contatti con i familiari. Il punto più importante in questo contesto è la preparazione di queste figure nel confrontarsi con tale compito. I familiari possono infatti manifestare shock e reazioni estreme alla notizia del suicidio e l’intervento dello psichiatra dovrebbe essere sempre messo in preventivo. Ai familiari dovrebbe essere permesso di vedere il corpo del suicida, evitando però di esporre parti troppo danneggiate del suo corpo; in modo che abbiamo la data la possibilità di dire l’ultimo saluto al defunto.
Secondo Jordan (2001) è opportuno affrontare il periodo del lutto agevolando la partecipazione dei survivors a gruppi omogenei, a servizi psicoeducazionali e ad attività che coinvolgono famiglie e servizi sociali. La psicoterapia individuale rimane comunque un’opzione importante perché permette al soggetto di poter parlare apertamente della sua sofferenza e poter analizzare i suoi sentimenti di colpa. Non va dimenticato che chiunque commette il suicidio deve prendersi la responsabilità della sua morte. Il suicidio è un atto egocentrico e che tiene poco conto di tutto il resto.
L’autopsia psicologica è un metodo messo a punto per fare chiarezza sulla condizione psicologica del soggetto prima della morte, tramite raccolta di informazioni da persone attendibili come familiari, amici, polizia giunta sul posto del suicidio, medici che hanno curato il defunto. Fu originariamente introdotta per far luce sulle morti equivoche ma successivamente è stata applicata per meglio conoscere il fenomeno suicidario. Come insegna Shneidman (2004) ‘Nell’autopsia psicologica, i guanti vengono tolti”, e si deve parlare candidamente del defunto. È necessario mettere da parte il motto De mortuis nihil nisi Bonum (del morto non si dice niente se non di buono). Con questa modalità di azione si è visto che oltre a ricavare dati importanti di ricerca sul suicidio è possibile fornire un utile sostegno servendosi di domande e ascolto empatico di ciò che i survivors riferiscono. È molto importante che coloro che utilizzano il metodo dell’autopsia psicologica siano attenti a rispettare la sofferenza di questi soggetti. Nel corso di questi incontri, i familiari e gli amici possono mostrare foto, diari, oggetti cari. Tutto questo serve a riconciliarsi con la memoria del defunto, spesso divisa tra sentimenti positivi e di ostilità. Sia nell’ambito dell’autopsia psicologica che di qualsiasi altro intervento è importante offrire comprensione e solidarietà. Tuttavia, la prima obiezione dei survivors è che colui che offre aiuto non può comprendere la loro condizione in quanto non ha vissuto il loro dramma. Ecco perché spesso i gruppi o gli interventi di sostegno includono anche survivors che hanno superato il loro dramma ed hanno acquisito abilità nel dare aiuto.
Coloro che perdono un caro per suicidio, devono purtroppo fare i conti con esiti negativi nell’ambito delle loro vite. Tra questi si può in primo luogo citare l’aumentato rischio di suicidio. Poi, possono essere rintracciati nelle storie di questi individui i disturbi dell’umore, soprattutto la depressione, a volte grave, il diminuito rendimento sociale e lavorativo, la tendenza all’introversione, all’isolamento e al pessimismo. Il tema del suicidio può rimanere un argomento tabù anche per molti anni, taciuto e vissuto in silenzio, un fardello spesso ceduto in “eredità” ai membri della famiglia. La ferita della perdita, in alcuni casi non viene mai sanata completamento, viene vissuta come irrimediabile e con netto decadimento della qualità di un intera vita (Grad, 2005).
Per contro, paradossalmente, la perdita sebbene traumatica e devastante, in alcuni casi può aprire la strada a cambiamenti che migliorano la vita dei sopravvissuti. Essi si confrontano meglio con le problematiche del quotidiano, sono più attenti ai segnali di rischio di suicidio e acquisiscono maggiore indipendenza, autonomia e crescita personale. La solidarietà tra i membri del gruppo gli da la forza per costruire nuovi e più funzionali legami. L’aver attraversato momenti di sofferenza estrema rende questi individui capaci di apportare aiuto a coloro che vivono la stessa tragedia e, dunque, guidare associazioni o programmi dediti ad assistere le persone segnate da una perdita a causa del suicidio.