Stigma e suicidio
Uno dei problemi più grandi legati al suicidio è lo stigma, ossia un marchio peggiorativo che è associato a coloro che hanno tentato il suicidio o alle persone che hanno perso un caro per suicidio. La storia insegna che in passato veniva applicata ogni tipo di punizione a coloro che si suicidavano e ai loro cari. Oltre a sottoporre il corpo del suicidio a pubblica umiliazione, spesso si negava anche il rito funebre e la sepoltura nei cimiteri. La famiglia spesso era privata degli averi del defunto o subiva addirittura ripercussioni legali (Alvarez, 1973; Pompili e Tatarelli, 2007). Una possibile interpretazione di queste usanze si riferisce alla necessità di mostrare pubblicamente la gravità del gesto scoraggiando ulteriori suicidi, che aveva tuttavia effetti deleteri sui sopravvissuti.
Attualmente, sebbene non vi siano più ripercussioni altisonanti, vi sono sottili processi di emarginazione nei confronti dei sopravvissuti. Si assiste dunque alla riduzione dei contatti sociali, al silenzio sia dentro che fuori alla famiglia e alla sofferenza spesso negata nelle manifestazioni più comuni ma presente nel quotidiano in modo mascherato e inaspettato.
Il suicidio è un atto personale, ma tutti ne sentono gli effetti. Così recita uno slogan diffuso da una grande associazione statunitense che si occupa della prevenzione del suicidio. Secondo le stime di questa associazione, ogni anno 180.000 individui divengono survivors, ossia individui che hanno perso un caro per suicidio. Il termine survivor o sopravvissuto è dunque utilizzato per descrivere le difficoltà che devono affrontare quotidianamente le persone che hanno perso un loro caro a causa del suicidio.
L’impatto è sulle famiglie, sulla comunità e sulla società nella sua interezza. Ogni suicidio priva chi rimane in vita di un potenziale di affetti, di creatività e di contributi ai vari aspetti della vita. Non si tratta solo della perdita della vita di un individuo, ma soprattutto del vuoto che esso lascia nelle molteplici attività dei viventi.
I sopravvissuti sono la più grande comunità di vittime nell’area della salute mentale connessa al suicidio (Shneidman, 1972).
Negli Stati Uniti ci sono circa 31.000 suicidi ogni anno. Si stima che per ogni suicidio ci siano almeno sei persone che sono intaccate da questo evento – e si tratta di una sottostima del fenomeno. Da questi calcoli risultano, dunque, cinque milioni di americani divenuti sopravvissuti negli ultimi 25 anni.
La perdita di una persona cara per suicidio è scioccante, dolorosa e inaspettata. Questa esperienza è un processo individuale molto complesso e che si svolge in tempi diversi; il dolore non segue sempre un percorso lineare e non necessariamente progredisce e si risolve. Non ci sono indicazioni sul momento in cui tale dolore si risolverà; questi individui non si aspettano di tornare alla vita normale precedente l’evento, ma devono adattarsi alla nuova vita senza la persona cara.
L’American Psychiatric Association considera il trauma derivante dalla perdita di un caro per suicidio “catastrofico”, come un’esperienza in un campo di concentramento.
Coloro che hanno perso un caro per il suicidio affrontano molte emozioni tipiche del lutto, ma in più provano una gamma di sentimenti unici per la loro condizione.
A differenza di altri decessi, in cui la responsabilità dei cari non è messa in discussione in quanto la morte sopraggiunge per malattia, incidente o per vecchiaia, nel caso del suicidio le persone che avevano anche un minimo contatto con il suicida si domandano se avrebbero potuto in qualche modo evitare, ostacolare e quindi prevenire l’atto letale.
Il sentimento di colpa è dunque l’elemento più importante cha attanaglia i survivors. Non è da sottovalutare che le persone che affrontano un lutto sono generalmente comprese e ricevono compassione, nonché sostegno; non si può dire che lo stesso avvenga per coloro che hanno perso un caro per il suicidio.
Un sentimento di facile riscontro nei sopravvissuti è la rabbia verso la persona deceduta. In altre parole, la persona che si è persa è anche l’omicida di se stessa, dunque è difficile non provare rabbia per chi è causa della perdita.
Una delle difficoltà più grandi dei sopravvissuti è immaginare momenti felici con chi è deceduto, il quale, avendo scelto di suicidarsi, ha scelto di non vivere più con i suoi cari, privandoli della possibilità di condividere anche i momenti lieti.
Questa difficoltà sussiste perché manca un evento accidentale come causa di morte; il suicida ha scelto di morire e dunque per i survivors ha scelto anche di interrompere qualsiasi rapporto con i suoi cari. Questi sono in conflitto nell’accettare e rifiutare la memoria del suicida. I sopravvissuti riportano in molti casi shock, rifiuto della perdita, dolore, ottundimento emotivo, rabbia, vergogna, disperazione, incredulità, depressione, tristezza, solitudine, sentimenti di abbandono, ansia e irritabilità. In alcuni casi, la perdita slatentizza un disturbo più grave.
La nostra esperienza ci ha mostrato psicosi paranoidi nel caso di non ritrovamento del corpo; dissociazione, disturbi deliranti e allucinazioni che si sono risolte dopo ricovero in ambiente psichiatrico, terapia farmacologica e psicoterapica.
Krysinska (2003) rileva che il comportamento suicidario è spesso preceduto dall’esperienza di aver perso una persona a causa del suicidio.
Recentemente (Pompili et al, in press) è stato evidenziato come il dolore di aver perso un caro per suicidio sia insidioso e pervasivo, tanto da devastare intere famiglie con ulteriori casi di morti per questa causa. Il suicidio di un certo individuo può anche portare a clusters di suicidio che si realizzano nell’ambito di un tempo limitato e in un certo ambito. E’ dunque facile rintracciare l’ideazione suicidaria in molti sopravvissuti che dichiarano che la loro vita non ha più speranza, e che anch’essi pur di disfarsi dal dolore mentale che li tormenta sono pronti al suicidio.
Questo è meglio comprensibile se si considera con Shneidman (1993) che il dolore mentale è l’ingrediente base del suicidio, e che tale gesto non è un atto di avvicinamento alla morte, ma di allontanamento da un dolore mentale insopportabile. Secondo Farberow et al (1992a,b), l’elaborazione del lutto inerente ad una morte per suicidio necessita di più tempo rispetto ad altri lutti. Solo dopo il terzo anno dalla perdita i due tipi di lutto sembrano non presentare più differenze significative. Il processo di lutto nei sopravvissuti del suicidio è spesso associato a pensieri suicidari e tentativi di suicidio (Latham et al, 2004; Szanto et al, 1997).